Ho lasciato Parigi, riesco a scriverlo solo dopo un mese, per citare una penna bionda decisamente à l’ouest.
È passato poco più di un mese da quando ho trascinato giù dalle scale di casa (non più) mia un bagaglio di incalcolabili chili in eccesso, lasciando i miei venti metri quadri liberi per un nuovo inquilino. Poche ore dopo, qualcuno è arrivato a cambiare per sempre l’odore che nei mesi le mie narici avevano imparato a riconoscere: casa.
È passato poco più di un mese e solo adesso vorrei scrivere di Parigi. Scrivere il colore che ha, prima di asciugarsi, l’acqua che ha lavato i ciottoli di rue au maire infilandosi tra l’uno e l’altro in rivoli sottili. Raccontare come si impara, scendendo le scale della fermata, a distinguere dal rumore la tua metro da quella che sta arrivando sull’altro binario. Dire di quale soddisfazione infantile derivi dal conoscere un qualunque digicode, della magia di quelle porte pesanti che si aprono sulle strette trombe delle scale, scale con il loro odore di legno e Parigi al chiuso. Del fiatone mentre ti arrampichi, come è giusto che sia, verso piani alti e studenteschi pronti a regalare in esclusiva uno sguardo negli occhi della Tour Eiffel dalla finestra del bagno. Vorrei scrivere il privilegio di accelerare il passo nell’attraversare la Senna verso droite pensando che sta per chiudere il supermercato. O quello che succede le volte che a Hôtel de Ville scendi dalla 1 e imbocchi il lunghissimo corridoio verso la 11 e dal fondo senti quello che canta Bob Marley e quando ti avvicini un poco sei hai fortuna lui attacca Redemption Song e la sua voce è il solo suono della galleria e tu vorresti avere intorno tutti quelli che hai mai amato in vita tua perché possano godere anche loro di quel momento: non è meraviglioso?.
Invece in momenti così per qualche ragione si è sempre da soli, e se è vero che si vive di attimi si vive proprio di attimi così, specialmente a Parigi, che quando li racconti non è mai la stessa cosa, e nessuno può capire davvero.
Anche qui, con quest’elenco potrei continuare a non finire. Ma sarebbe inutile.
C’è un’immagine che ho in mente in questi giorni ed è la metafora quasi esatta della sensazione che provo, quando penso alla Ville Lumière.
All’imbocco di ogni tunnel della metropolitana c’è uno specchio. Immagino serva per le manovre, non ne ho idea. Con un gioco di riflessi che non mi sono mai impegnata troppo a capire, mostra l’ingresso al binario più vicino, con le scale, se ci sono, e la gente che arriva e va via. Quando sei sul treno, se, quando parte, guardi dai finestrini in direzione del binario lo vedi lo specchio, di sfuggita ma bene, perché la metro già sta accelerando ma ancora non corre. Quindi ti resta negli occhi quest’immagine, definita ma rapidissima, dell’interno della stazione. Ha qualcosa di onirico, irreale. E ti lascia la sensazione che se solo avessi avuto un secondo di più saresti riuscita a vedere i volti di quelli che arrivavano al binario. E magari a descriverli, anche.
“If you are lucky enough to have lived in Paris as a young man, then wherever you go for the rest of your life it stays with you, for Paris is a moveable feast.” (Ernest Hemingway)