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Archive for the ‘ce n’è troppo di mondo’ Category

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Da una collaborazione tra Kartell e .normaluisa. Le voglio, e forse dipende dal nome: Cinderella. Glue Cinderella.

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Ieri è stata una bella domenica di sole. Anche a Delhi sta arrivando l’inverno, ma di giorno il sole scalda ancora, e a volte la foschia si dirada per lasciare spazio ad un cielo così azzurro da inghiottire anche la polvere. Nella stradina davanti a casa mia, ho trovato questi due. Mi sono sembrati meravigliosi.

Ho pensato, perdonate se fa troppo “no surprises”, che magari l’amore non è altro che passare insieme cinquanta, o magari anche sessant’anni, e ancora aver voglia di sedersi uno di fronte all’altro, nel sole di una domenica di novembre, a scegliere peperoncini verdi piccanti.

Dimenticatevi passioni travolgenti e romanticismi: cinquanta, o sessant’anni fa, qui i matrimoni erano solo combinati.

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Questo letto si chiama Principessa ed è disegnato da Doshi Levien (“Best Quality since 2000″, dice, geniale, il suo sito) mi sembra l’antidoto perfetto per incubi e insonnie di ogni tipo.

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Qualche mese fa, sono stata a Dharamsala.

Dharamsala è una città dell’Himachal Pradesh, India del Nord. È una città sparsa che sembra piuttosto un insieme di villaggi arrampicati sulle montagne, uno dei quali è McLeod Ganj. McLeod Ganj è un posto pieno di occidentali vestiti in modo strano, ma questa è un’altra storia. Per questa storia quello che importa è che a McLeod Ganj ci sono un sacco di monasteri buddisti più uno che si chiama Namgyal e ha un caffé che serve cibo biologico e sostiene di avere nel menu la pizza migliore della città. Ma questo non è il motivo per cui il monastero Namgyal è famoso. È dove vive il Dalai Lama, per questo è famoso, e questo spiega anche perché ci sono tanti monasteri buddisti da quelle parti.

Come il monastero Kirti, dove ho incontrato Tsondue.
Tsondue ha la stessa apparenza di ogni altro monaco – la testa rasata, il vestito bordò, il rosario –   se non fosse per quella qualità intensamente seria e tuttavia serena del suo sguardo, che dirige – il più delle volte – verso il pavimento. È seduto in una stanza con altri tre monaci più giovani. Mentre parlano, ascolta con molta attenzione e prende appunti nel suo quaderno. Quando tocca a lui parlare, tutti nella stanza si alzano, congiungono le mani in segno di preghiera per offrire la loro benedizione, ed escono.

Tsondue comincia a parlare: la sua voce è roca, il tono è basso.
Sono le prime parole che pronuncia in quattro anni.
Ha fatto voto di silenzio, un silenzio in cui farà ritorno alla fine della nostra conversazione. Parla piano, enfatizzando le parole con ì gesti delle mani; ogni volta che termina una frase, accenna un sorriso e, con un leggero inchino, ringrazia per l’ascolto.

Tsondue ha quarantadue anni ma sembra più vecchio, non tanto nel corpo quanto  nell’atteggiamento. Viene da Golog, nella provincia di Amdo, in Tibet, dove ha trascorso la sua infanzia, con la sua famiglia di pastori nomadi. Sua madre è morta quando lui aveva solo otto anni, suo padre quando ne aveva sedici. Rimasto orfano, ha seguito la sua tribù nomade per altri tre anni, fino al suo ingresso nel monastero Kirti di Nawa. Lì, all’età di diciannove anni, gli fu data, per la prima volta in vita sua, la possibilità di studiare. Al tempo non sapeva leggere, né scrivere ed entrando in monastero avrebbe dovuto dedicare i successivi dieci anni allo studio; “dieci anni”, ripete, con l’entusiasmo di quel momento che ancora gli balugina negli occhi.
Ma le cose andarono diversamente.
Nel 1989, quattro anni dopo l’inizio della sua vita nel monastero, un’ondata di proteste  scatenatasi  a Lhasa e si è diffusa in tutto il Tibet. Con altri tre monaci, Tsondue aveva in programma di prendere attivamente parte alle manifestazioni ma, prima che fosse possibile, la polizia lo colse mentre affiggeva un poster in difesa del Dalai Lama e lo arrestò.

Lo interrogarono in dieci, cercando di estorcergli i nomi dei suoi compagni. In seguito al suo ostinato rifiuto di denunciarli, fu picchiato e torturato: su mani, braccia e schiena, Tsondue porta ancora i segni di quell’episodio. Mentre lo pestavano coi bastoni, ricorda, i poliziotti lo deridevano, dicendogli che il Dalai Lama sarebbe senz’altro accorso a salvare  un uomo tanto coraggioso.
Lo scherno, perfino più del dolore fisico, rese la situazione intollerabile: Tsendue perse i sensi diverse volte.

Dopo un mese di interrogatori fu condannato a due anni di reclusione nella prigione di Nawa.

In carcere, Tsendue passò il suo tempo con i prigionieri cinesi, provenienti per la maggior parte da altre regioni del Paese: le loro famiglie non potevano portar loro vestiti o cibo, così lui condivise i suoi. Dopo una vita passata in completo isolamento rispetto alla popolazione cinese, nella solidarietà che deriva dalla condivisione della stessa sofferenza, Tsendue fece amicizia con dei Cinesi.

Una volta rilasciato, tornò nel suo monastero ma fu mantenuto sotto stretta sorveglianza. La sua stanza fu sottoposta a periodiche persecuzioni, nell’ultima delle quali, nel 1994, i poliziotti trovarono in suo possesso una foto del Dalai Lama e gli chiesero di presentarsi al commissariato il giorno successivo.
Quella notte, solo e senza avvisare nessuno nel monastero, Tsondue fuggì nelle montagne di Golog, dove per sei mesi si nascose dai poliziotti inviati sulle sue tracce. Poi, l’ultima notte dell’anno, scappò verso Lhasa e lì, con un amico, pagò una guida che li conducesse attraverso il confine del Nepal; in seguito, si rifugiò in India.
Da allora, dice scuotendo tristemente la testa, non è mai tornato a casa.

I suoi sentimenti, però, sono di speranza.
Durante le torture, Tsondue giunse al punto di voler uccidere coloro che lo avevano arrestato, torturato e costretto a lasciare la sua casa e quando partì dal Tibet era pieno di rabbia.
Poi, però, ebbe la fortuna di ascoltare gli insegnamenti del Dalai Lama e finalmente capì: non esiste alcun beneficio nella violenza, in nessun caso, da nessuna delle due parti.

Tsondue è riuscito a perdonare tutti quelli che gli hanno fatto del male.
Ora, non ha che compassione per loro, perché si rende conto che sono vittime, proprio come lo sono lui e il suo popolo: vittime delle condizioni, dell’ignoranza, della politica. Adesso sa che la gente comune – i Cinesi come i Tibetani – non hanno colpe nella sua tragedia, e prega per un futuro in cui la politica possa raggiungere la condizione in cui lo spirito della gente comune è già, quella in cui la convivenza è, semplicemente, la cosa più naturale.
Tsondue prega ogni giorno perché arrivi il momento in cui Cinesi e Tibetani possano recuperare la storia di fratellanza che hanno costruito vivendo fianco a fianco per secoli.

Con un ultimo inchino, Tsondue sorride, si alza e si dirige verso la porta. Prima di uscire si ferma e mi guarda negli occhi. Quello sguardo risoluto e sereno è ora completamente puntato su di me: “Racconta la mia storia”, mi chiede, “per favore”. E aggiunge: “Non voglio che chi ascolta stia dalla mia parte, perché finché esistono parti opposte non esiste pace. Bisogna che ciascuno capisca, da sé, qual è la strada verso verità e libertà”.
Poi china leggermente il capo e, con passo lento, va via.

Negli ultimi quattro anni, Tsendue ha parlato una sola volta, per raccontare questa storia. Il resto dei suoi giorni è passato, e passerà, in un’incessante silenziosa preghiera per la pace.

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webwithoutsense

Web Without Sense, dategli un’occhiata. Ha un sacco di senso.

(via Fabrica Blog attraverso Ann).

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Parto domani, destinazione Indira Gandhi International Airport – New Delhi.

Il mio nuovo indirizzo sarà a New Delhi, Chittaranjan Park, CR Park per i locali.

Potrei anche imbattermi in me stessa, mentre cammino per strada, ma non preoccupatevi: non è di certo il motivo per cui mi sto trasferendo in India.

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I wish I could upload this but all I can do is linking.

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Ieri, in macchina, ho girato per le zone tra Pavia ed Alessandria.
Il tempo era grigio e freddino. Ancora inverno.
Gli scheletri degli alberi ancora spogli costeggiavano la mia strada.
Tra i rami più alti, quasi su ogni albero, un infittirsi di rametti come in nuvolette, o palloni.

Sono dei nidi, ho pensato, con la meraviglia che danno le cose belle e semplici, quando ti ricordi che ci sono ancora.

Non avevo mai visto tanti nidi, così grandi, sugli alberi spogli. Mi sono sembrati una specie di miracolo.
Istinto ingegnere e perfetto: costruire i nidi per gli uccellini tra i rami spogli. Cresceranno le foglie, gli alberi li proteggeranno.

Io, che ho sempre trovato la natura piuttosto noiosa, non riesco a smettere di pensare a quei nidi sugli alberi lungo l’autostrada. Alla loro esattezza, leggerezza, fragilità. Mi commuove la loro dolcezza ma il retrogusto è triste, la tristezza di quella bellezza che dovremmo saper difendere.

Mi capita sempre, quando vedo le margheritine spuntare nei prati in quelle giornate tiepide sbagliate che espolodono in pieno inverno. Tristi margherite, non sopporteranno il ritorno del freddo. Dolci margerite, sorridenti e confuse: hanno scambiato gennaio per la primavera. E non ne hanno colpa, loro.

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A reason to love the web is that sometimes it just comes to you with such great presents.

This is what I call a great present. My cynical friends all over the world, here is a moment of pure enjoyment!

pessimistsbanner.jpg

p.s. If anyone knows about jobs at Despair, Inc. please let me know… I wouldn’t mind even making and bringing coffee to these guys, as far as it’s using this mug.

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