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Archive for the ‘dammi tre parole: monsone, cuore, amore’ Category

Parto domani, destinazione Indira Gandhi International Airport – New Delhi.

Il mio nuovo indirizzo sarà a New Delhi, Chittaranjan Park, CR Park per i locali.

Potrei anche imbattermi in me stessa, mentre cammino per strada, ma non preoccupatevi: non è di certo il motivo per cui mi sto trasferendo in India.

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In India la mobilità è creativa in modo sorprendente. Il solo principio che la governa è quello secondo cui qualunque cosa si muova possa essere un ottimo mezzo di trasporto per un numero di persone superiore a qualunque logica previsione. Quindi, per strada: cammelli, elefanti, mucche (sempre con il dovuto rispetto), biciclette, hand-pulled rickshaw, bike rickshaw, auto rickshaw, carretti trainati a mano carichi di quantità improponibili di merci, scooter, Ambassador Taxi, Air Taxi, autobus personalizzati e molto altro ancora.
Le strade sono tutte sempre così intasate che a Calcutta hanno trovato una soluzione molto semplice: le vie principali del centro sono a senso unico alternato durante il giorno, e solo la sera, a volte. Il senso unico alternato vuol dire che per metà del giorno il traffico scorre solo in una direzione, e per l’altra metà dall’altra. Gli orari sono imprecisati e oserei dire variabili, anche se misteriosamente i tassisti sanno sempre benissimo che nel momento in cui sali sulla loro vettura la direzione di marcia più comoda è, purtroppo, proibita.
Insomma tutto il conglomerato semovente che intasa le strade ha come caratteristica principale quella di fare molto ma molto rumore. Campane e campanellini, ma soprattutto clacson.
A me al corso di educazione stradale hanno insegnato che esiste un cartello molto importante che rappresenta un clacson con un divieto e vuole dire che cono vietati gli schiamazzi e le strombazzate in città. Mi è stato anche spiegato che dare un colpetto di clacson per strada per attirare l’attenzione di un passante che si conosce non fa chic e comunque non si potrebbe.
In India le cose sono leggermente diverse. Non esiste il colpo di clacson, esiste il suono del clacson che accompagna ininterrotto tutto il tragitto percorso dal veicolo. Dietro sul retro degli autobus è dipinta la richiesta Horn Please. Io ho addirittura il vago sospetto che i mezzo motorizzati indiani siano costruiti in modo che il clacson si azioni automaticamente dall’avvio all’arresto del veicolo, senza soluzione di continuità.
Se a questo si aggiungono le voci, le urla e gli uccelli che cinguettano (anche se cinguettare suona troppo piacevole, come verbo), il turista finlandese che ho incontrato a Calcutta che girava l’India da mesi con i tappi nelle orecchie sembra, sì, strano. Ma solo fino a un certo punto.

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Secondo la più perfetta delle leggi di Murphy, un attimo dopo aver comprato i biglietti per un giretto Kolkata – Varanasi – Agra – Delhi un puntuale assignment di una settimana a Kolkata (di nuovo ?!?) si è abbattuto sui nostri piani.
Biglietti cancellati, si resta nella città della gioia per qualche giorno ancora.
Sono arrivata qui dieci giorni fa da Delhi con un volo Spicejet che ho preso pagando la tariffa Indian Resident perché nessuno – nessuno! – ha controllato i miei documenti. È buffo come in questi pochi giorni si sia creata una sorta di realtà quotidiana parallela lontana anni luce dalla mia effettiva eppure simile, per certi aspetti. Le mie giornate a Calcutta si sono composte un pezzo alla volta fino a diventare familiari: la colazione piccante, i biscotti più improbabili, tutti questi colori, gli slogan più assurdi (Our coffee is like your man: dark and Indian) il caffè Illy con internet a scrocco e l’aria condizionata che peggio degli Americani i single egg roll no onions please e il chai, nella tazzina di terracotta che io non voglio mai buttare via. Ho finalmente capito che esiste un unico degno universale per dire sì, no, non lo so e chissà cos’altro, un gesto che gente ben informata sui fatti chiama bubble head: bisogna venire fino a qui, no way out, per capire di cosa parlo.
Un pezzo alla volta mi ambiento, giorno dopo giorno il mio cultural shock si fa più piccolo. E piano piano divento una di quegli occidentali che vengono in India, pensano che sia incredibile.
E non ci capiscono niente.

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I giorni stanno passando veloci. L’odore nell’aria non lo sento più.
Ho visto un po’ di Delhi, girandomela seduta dietro un vecchio scooter nero, roba da remake Bollywood di Vacanze Romane.
Di tutto, c’è di tutto in quest’India.
C’è la cena take-away eco-friendly – il cibo avvolto nelle pagine di giornale – e i ristoranti costosi e kitsh che sto collezionando: quello con la melodia di Per Elisa quando si chiudono le porte dell’ascensore, quello con un treno all’interno – i tavoli come nel vagone ristorante, di tanto in tanto effetti speciali: il rumore di un treno in corsa e le vibrazioni del suolo.
C’è Chandni Chowk, la strada più famosa d’India (che logicamente io non avevo mai sentito nominare), con un mercato per tutto, dove tutti vendono tutto: Yes Madam, yes beautiful Madam, Madam look like Indian Madam, very nice Madam, very cheap Madam.
C’è il muezzin che canta all’alba, le campane che suonano non molto dopo, le mucche pigre a bordo strada, che mangiano quello che capita o ciondolano in mezzo al traffico, le statue di Shiva Vishnu e che gli dei siano con noi.
C’è il buio, la sera: non è che non ci siano luci, semplicemente ce ne sono di meno. E se non guardi bene inciampi in qualcuno che dorme sdraiato per terra.
C’è la gente. Ci sono persone ovunque, uno sproposito di persone. persone colorate, sorridenti, senza dita, senza casa. Persone furbe e troppo furbe, gentili e decisamente troppo gentili. Ci vogliono almeno cinque persone per svolgere qualunque attività: una, a turno, si occupa del lavoro, le altre guardano consigliano e intrattengono in cliente.
Ci sono gli occhi. Che mi fissano, ovunque. Pelle bianca capelli chiari. Martedì ero seduta sulle scale dell’Indian Museum e stavo leggendo la mia guida. Quando ho alzato la testa mi sono ritrovata di fronte una fila di bambini – avranno avuto sei anni – che mi fissavano con gli occhi sgranati. Io ho sorriso e loro si sono dileguati, nemmeno gli avessi fatto buh.
Qualche giorno fa a Delhi, ferma al semaforo, mentre cercavo di risolvere l’indovinello cosa ci fanno dieci Indiani nell’utilitaria qui accanto? Mi sono accorta di essere la principale attrazione in mezzo al traffico: nell’autobus accanto a me tutti –tutti – i passeggeri lato finestrino avevano la testa voltata verso di me.

Fisso tutti e tutto anche io comunque, più e peggio di quanto già non faccia di solito.

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Succede che certi ragazzi vadano a cacciarsi nel subcontinente indiano facendo fotografie per conto di pubblicazoni di una certa fama. Succede, allora, che certe ragazze decidano di andarli a trovare.

Sveglia alle 5.30. Metro 11 fino a Chatelet. RER B fino a Aéroport Charles de Gaulle, terminal 2. Check-in automatico. Duty free sopping: biscotti francesi pure beurre. Imbarco. Volo British Airways Paris London Heathrow. Landing. Duty free shopping: butter English cookies. Gate 6. Decollo. Ore 1, 15 am locali: Indira Gandhi International Airport. New Delhi.
Ci siamo. Ci sono.
Mentre sbrigo le formalità in dogana, aspetto il bagaglio, mi dirigo verso il cartello “A. M.”, sorrido, saluto a distanza e salgo sul taxi, per me New Delhi, India, è soprattutto un odore mai sentito.
Ma da quando l’aria ha un odore?
L’odore dell’aria nelle narici; tra poco mi ci abituerò, tra qualche giorno mi sembrerà, di nuovo, un odore trasparente. Per ora: odore di sconosciuto, lontano, incontrollabile, soprendente. Un odore che fa spalancare gli occhi.
Però c’è nebbia. E basta quasi a dare al tutto una parvenza più domestica.

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