E poi in Francia, il 21 di giugno, il giorno più lungo dell’anno, c’è la Fête de la musique.Ad ogni angolo di strada: musica. Chiunque può suonare, dove e come gli va. Senza limiti di orario o di volume.
E va da sé: festa, festa fino al mattino.
Poi è logico che quando torno a casa ho appena il tempo di mettere le mie cose in un borsone.
Volo da Charles de Gaulle alle 8 e poco.
Quando riesco a svegliarmi seriamente è già ora di pranzo e sto svuotando un take away giapponese a Charing Cross. Non vedevo l’Inghilterra, tappa obbligata di tutte le mie vacanze estive liceali, da sei anni. E mi ricordavo quasi solo le parti da cartolina: è strano come (non) vedi le cose, quando sei teen. Solo a Southbank tutto aveva un’aria familiare, compresa la grande piazza sempre deserta in cui mi sono ritrovata a camminare nella pioggia con Sa’ una domenica mattina.
Non me la ricordavo così grande, Londra. Né così affascinante, con quella sensazione che qualcosa, lì, si muova davvero e quell’estetica tutta sua che a volte diventa persino comprensibile.
Sarà che non avevo mai conosciuto nessuno che ci vivesse, invece questa volta sono andata a cena in una di quelle case che studiavo alle medie al corso di English and American civilization. Sarà che quella casa ancora tutta da finire sapeva di progetti. Sarà che, circondata dalla delegazione fabricante londinese ho respirato di nuovo quell’aria di sogni in via di realizzazione e di nuovo mi è sembrato di sentirmi chiedere ma ci provi, tu? e a realizzare che?.
E senza che io pensassi ad alta voce la domanda, mi è stata offerta una risposta. Una, non la.