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Archive for September, 2008

Qualche mese fa, sono stata a Dharamsala.

Dharamsala è una città dell’Himachal Pradesh, India del Nord. È una città sparsa che sembra piuttosto un insieme di villaggi arrampicati sulle montagne, uno dei quali è McLeod Ganj. McLeod Ganj è un posto pieno di occidentali vestiti in modo strano, ma questa è un’altra storia. Per questa storia quello che importa è che a McLeod Ganj ci sono un sacco di monasteri buddisti più uno che si chiama Namgyal e ha un caffé che serve cibo biologico e sostiene di avere nel menu la pizza migliore della città. Ma questo non è il motivo per cui il monastero Namgyal è famoso. È dove vive il Dalai Lama, per questo è famoso, e questo spiega anche perché ci sono tanti monasteri buddisti da quelle parti.

Come il monastero Kirti, dove ho incontrato Tsondue.
Tsondue ha la stessa apparenza di ogni altro monaco – la testa rasata, il vestito bordò, il rosario –   se non fosse per quella qualità intensamente seria e tuttavia serena del suo sguardo, che dirige – il più delle volte – verso il pavimento. È seduto in una stanza con altri tre monaci più giovani. Mentre parlano, ascolta con molta attenzione e prende appunti nel suo quaderno. Quando tocca a lui parlare, tutti nella stanza si alzano, congiungono le mani in segno di preghiera per offrire la loro benedizione, ed escono.

Tsondue comincia a parlare: la sua voce è roca, il tono è basso.
Sono le prime parole che pronuncia in quattro anni.
Ha fatto voto di silenzio, un silenzio in cui farà ritorno alla fine della nostra conversazione. Parla piano, enfatizzando le parole con ì gesti delle mani; ogni volta che termina una frase, accenna un sorriso e, con un leggero inchino, ringrazia per l’ascolto.

Tsondue ha quarantadue anni ma sembra più vecchio, non tanto nel corpo quanto  nell’atteggiamento. Viene da Golog, nella provincia di Amdo, in Tibet, dove ha trascorso la sua infanzia, con la sua famiglia di pastori nomadi. Sua madre è morta quando lui aveva solo otto anni, suo padre quando ne aveva sedici. Rimasto orfano, ha seguito la sua tribù nomade per altri tre anni, fino al suo ingresso nel monastero Kirti di Nawa. Lì, all’età di diciannove anni, gli fu data, per la prima volta in vita sua, la possibilità di studiare. Al tempo non sapeva leggere, né scrivere ed entrando in monastero avrebbe dovuto dedicare i successivi dieci anni allo studio; “dieci anni”, ripete, con l’entusiasmo di quel momento che ancora gli balugina negli occhi.
Ma le cose andarono diversamente.
Nel 1989, quattro anni dopo l’inizio della sua vita nel monastero, un’ondata di proteste  scatenatasi  a Lhasa e si è diffusa in tutto il Tibet. Con altri tre monaci, Tsondue aveva in programma di prendere attivamente parte alle manifestazioni ma, prima che fosse possibile, la polizia lo colse mentre affiggeva un poster in difesa del Dalai Lama e lo arrestò.

Lo interrogarono in dieci, cercando di estorcergli i nomi dei suoi compagni. In seguito al suo ostinato rifiuto di denunciarli, fu picchiato e torturato: su mani, braccia e schiena, Tsondue porta ancora i segni di quell’episodio. Mentre lo pestavano coi bastoni, ricorda, i poliziotti lo deridevano, dicendogli che il Dalai Lama sarebbe senz’altro accorso a salvare  un uomo tanto coraggioso.
Lo scherno, perfino più del dolore fisico, rese la situazione intollerabile: Tsendue perse i sensi diverse volte.

Dopo un mese di interrogatori fu condannato a due anni di reclusione nella prigione di Nawa.

In carcere, Tsendue passò il suo tempo con i prigionieri cinesi, provenienti per la maggior parte da altre regioni del Paese: le loro famiglie non potevano portar loro vestiti o cibo, così lui condivise i suoi. Dopo una vita passata in completo isolamento rispetto alla popolazione cinese, nella solidarietà che deriva dalla condivisione della stessa sofferenza, Tsendue fece amicizia con dei Cinesi.

Una volta rilasciato, tornò nel suo monastero ma fu mantenuto sotto stretta sorveglianza. La sua stanza fu sottoposta a periodiche persecuzioni, nell’ultima delle quali, nel 1994, i poliziotti trovarono in suo possesso una foto del Dalai Lama e gli chiesero di presentarsi al commissariato il giorno successivo.
Quella notte, solo e senza avvisare nessuno nel monastero, Tsondue fuggì nelle montagne di Golog, dove per sei mesi si nascose dai poliziotti inviati sulle sue tracce. Poi, l’ultima notte dell’anno, scappò verso Lhasa e lì, con un amico, pagò una guida che li conducesse attraverso il confine del Nepal; in seguito, si rifugiò in India.
Da allora, dice scuotendo tristemente la testa, non è mai tornato a casa.

I suoi sentimenti, però, sono di speranza.
Durante le torture, Tsondue giunse al punto di voler uccidere coloro che lo avevano arrestato, torturato e costretto a lasciare la sua casa e quando partì dal Tibet era pieno di rabbia.
Poi, però, ebbe la fortuna di ascoltare gli insegnamenti del Dalai Lama e finalmente capì: non esiste alcun beneficio nella violenza, in nessun caso, da nessuna delle due parti.

Tsondue è riuscito a perdonare tutti quelli che gli hanno fatto del male.
Ora, non ha che compassione per loro, perché si rende conto che sono vittime, proprio come lo sono lui e il suo popolo: vittime delle condizioni, dell’ignoranza, della politica. Adesso sa che la gente comune – i Cinesi come i Tibetani – non hanno colpe nella sua tragedia, e prega per un futuro in cui la politica possa raggiungere la condizione in cui lo spirito della gente comune è già, quella in cui la convivenza è, semplicemente, la cosa più naturale.
Tsondue prega ogni giorno perché arrivi il momento in cui Cinesi e Tibetani possano recuperare la storia di fratellanza che hanno costruito vivendo fianco a fianco per secoli.

Con un ultimo inchino, Tsondue sorride, si alza e si dirige verso la porta. Prima di uscire si ferma e mi guarda negli occhi. Quello sguardo risoluto e sereno è ora completamente puntato su di me: “Racconta la mia storia”, mi chiede, “per favore”. E aggiunge: “Non voglio che chi ascolta stia dalla mia parte, perché finché esistono parti opposte non esiste pace. Bisogna che ciascuno capisca, da sé, qual è la strada verso verità e libertà”.
Poi china leggermente il capo e, con passo lento, va via.

Negli ultimi quattro anni, Tsendue ha parlato una sola volta, per raccontare questa storia. Il resto dei suoi giorni è passato, e passerà, in un’incessante silenziosa preghiera per la pace.

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